Una delle richieste della Cgil, del sindacato pensionati e dell'Inca rivolte al Governo è quella di rivedere al rialzo il meccanismo di "rivalutazione annuale" delle pensioni all'interno delle norme della legge di stabilità. Di cosa si tratta? Semplice! Ogni anno le pensioni dovrebbero essere rivalutate sulla base del costo della vita e del tasso di inflazione per mantenere nel tempo il loro potere d'acquisto. L'uso del condizionale è d'obbligo perché, in realtà, questo non avviene. Dal 2014 è in vigore la legge Letta sulla rivalutazione, la cui scadenza era fissata al 2016 e che speravamo di migliorare, ma il Governo l'ha prorogata, con la legge di stabilità, a tutto il 2018. Il meccanismo introdotto dal Governo Letta rivaluta molto parzialmente solo le pensioni fino a circa 1.500 euro lordi ( al massimo 1.100 euro netti al mese, quindi non proprio pensioni d'oro!) ma da 1.500 euro in su diminuisce la sua efficacia economica e da 2.000 euro lordi al mese scompare quasi totalmente, condannando queste pensioni a perdere gradualmente ma inesorabilmente il loro potere d'acquisto, con il conseguente impoverimento di interi strati sociali. Stiamo parlando di pensioni di 1.500 euro netti! Per effetto della proroga della legge Letta questa situazione proseguirà per altri tre anni e la giustificazione che il Governo ha fornito è stata la necessità che le pensioni alte (???) facciano solidarietà per pagare l'opzione donna che è stata prorogata di un anno. Ci corre l'obbligo di dire che questa affermazione non è vera e di dimostrarlo. Come risaputo l'opzione donna consiste nella possibilità, appunto riservata alle sole donne, di andare in pensione con 35 anni di contributi versati e dopo aver compiuto 57 anni e tre mesi di età per le dipendenti e 58 anni e tre mesi per le autonome, optando per il calcolo contributivo della prestazione. Dopo aver raggiunto i requisiti sopra descritti, le donne devono attendere altri 12 mesi se dipendenti o 18 mesi se autonome perché si apra la loro finestra e quindi percepire effettivamente la pensione. Queste pensioni, essendo liquidate interamente con il calcolo contributivo, anziché retributivo, che è più favorevole, subiscono una perdita di circa il 30% del loro valore. Facciamo un semplice calcolo. Prendiamo, ad esempio, il caso di una lavoratrice che con l'opzione donna va in pensione a 61 anni, anziché aspettare i 67 per la pensione di vecchiaia, anticipando quindi di 6 anni la scadenza. Questa lavoratrice se fosse andata in pensione con il calcolo retributivo avrebbe maturato un importo di 25.000 euro annui ma, scegliendo l'opzione contributiva, la decurtazione del 30% dell'assegno fa si che l'Inps le liquidi 17.500 euro all'anno. Considerando l'aspettativa media di vita delle donne di 84 anni, se fosse andata in pensione di vecchiaia a 67 anni avrebbe percepito 25.000 euro annui per 17 anni per un totale di 425.000 euro. Scegliendo, invece, l'opzione donna riceverà 17.500 euro annui per 23 anni per un totale di 402.500 cioè ben 22.500 euro in meno. Quindi l'opzione donna, nel tempo si finanzia da sola, anzi alla fine è proprio l'Inps che ci guadagna! In conclusione riteniamo che il Governo avrebbe dovuto e potuto trovare delle risorse per mantenere il potere d'acquisto delle pensioni già liquidate. Questa scelta sarebbe stata molto efficace anche per sostenere i consumi che proprio per la fascia di popolazione in pensione si sono notevolmente ridotti in questi anni di crisi. Una delle richieste della Cgil, del sindacato pensionati e dell'Inca rivolte al Governo è quella di rivedere al rialzo il meccanismo di "rivalutazione annuale" delle pensioni all'interno delle norme della legge di stabilità. Infatti, afferma Fulvia Colombini, del collegio di presidenza dell'Inca, per effetto della proroga fino al 2018 della legge Letta, la rivalutazione sarà molto parziale. ( Fulvia Colombini, del collegio di presidenza Inca Cgil )
Angelo Gentilini, da info Inca Cgil Nazionale.