Se durante la seconda guerra mondiale
avessimo avuto sul territorio un campo di concentramento, credo che a
qualche forestiero parrebbe strano se gli si dicesse: «Sai, dopo che
hanno finito di utilizzarlo come campo di concentramento, è stato
prima tenuto chiuso per vent’anni e poi lo hanno aperto da ogni
lato risanando i percorsi interni e il parco, sigillando per benino i
locali ormai inagibili, per farci sagre e iniziative di qualsiasi
genere, dal calcetto saponato alle feste di partito. La più recente
iniziativa ammicca nel titolo alla destinazione d’uso originale e
si chiama “Concentramenti-con”».
Qualcuno farebbe qualche domanda, io
credo, a cominciare dal perché fosse stato chiuso per vent’anni
senza occuparsi di trasmetterne la memoria storica, e infine, in
merito all’utilizzo indiscriminato promosso recentemente, sono
sicura che qualcuno farebbe notare: «Ma come, senza nemmeno
occuparsi che quello fosse un campo di concentramento? Passando sopra
alla storia così, trattando quel luogo come qualsiasi altro?» «Sì», dovremmo rispondere, «così:
dal campo di concentramento allo street food senza fare una piega».
Trent’anni prima i matti venivano ancora trattati con gettate
d’acqua fredda e la scena era sotto gli occhi dei passanti oltre le
recinzioni, trent’anni dopo facciamo “Manicomi-con” e feste
varie, senza fare una piega. Senza fare una piega, in questo caso,
significa incuranti del luogo e della sua memoria. «Però», direbbe magari qualcuno, «il
paragone tra un campo di concentramento e un manicomio mi pare
azzardato». Certo, qualcuno lo direbbe, e questo
dimostra appunto che non vogliamo fare i conti con la storia. Questo
dimostrerebbe quant’acqua sia passata sotto i ponti dalla
rivoluzione culturale che portò all’approvazione della Legge
Basaglia, che i luoghi come l’Osservanza li volle chiudere proprio
perché ritenuti lesivi della dignità umana, oppressivi, degradanti,
spesso sedi di torture. Tra l’altro sappiamo che l’Osservanza, al
contrario del Lolli, non chiuse per nulla nel ‘78 o giù di lì:
continuò a funzionare per centinaia di internati, ancora per
tredici, quattordici anni, e solo nei reparti gestiti dal Dott.
Antonucci la conduzione prettamente manicomiale era disattesa, anzi,
quotidianamente contrastata. Per oltre un secolo all’Osservanza e
al Lolli hanno trascorso mesi, anni, vite intere, decine di migliaia
di persone: donne, uomini, bambine e bambini. Vite rubate,
oltraggiate, offese. I manicomi erano luoghi di concentramento di
umanità varia ma tutta, per diverse ragioni, impossibilitata o
incapace di attenersi alla norma, alla morale corrente, o ai
comportamenti ritenuti idonei, ai pensieri e alle filosofie accettati
come corretti, alle prestazioni lavorative, domestiche, familiari
dipendenti da rigidi ruoli sociali, di genere, ecc.. Luoghi di
concentramento, di reclusione, dove questa incapacità o
impossibilità di attenersi alla norma, questa difficoltà di
normalizzazione, questa diversità spesso irriducibile e comunque
scomoda, veniva ritenuta in diverse direzioni pericolosa, e come tale
trattata, alimentando il pregiudizio verso qualcuno, ritenuto
“sbagliato” e promuovendo l’idea di una comunità altrimenti
sana, equilibrata, giusta, che non doveva essere perturbata, corrotta
da comportamenti inadeguati o disturbata da difficoltà eccessive, di
ordine fisico o mentale. Chiunque abbia frequentato da vicino un
manicomio sa che c’è poco da ricordare con leggerezza. E forse è
per questo che stiamo procedendo con un colpo di spugna sul nostro
passato di dipendenti dalle istituzioni manicomiali imolesi, da
quella che è stata per Imola quello che fu la FIAT per Torino, come
giustamente ha scritto qualcuno nell’introduzione ad uno degli
ultimi libri che ha raccolto le testimonianze di infermieri e medici
ancora in vita.
Ma cosa voglio dire, in fondo? Che
dovremmo conservare quell’area bloccata nella sua storia?
Trasformarla in un grande museo-testimonianza? Certo che no. Fosse
stato per me, fossi stata io la Proprietà, non avrei per niente
rotto trent’anni fa i sifoni dei lavandini, spaccato tubature,
divelto porte, insomma fatto in modo da impedire l’utilizzo dei
reparti, anche quelli che ai tempi erano stati appena ristrutturati,
a gruppi di cittadini, associazioni, artisti, a chiunque intendesse
fare attività in quel luogo. Io non avrei mai tenuto chiuso per
vent’anni quei contenitori, così preziosi e così appetibili,
oltre che per i costruttori locali, soprattutto per chi avesse idee
di laboratori, di incontri, di iniziative. Certo non avrei mandato
sotto processo, come invece è accaduto, dei giovani colpevoli di
aver occupato un ex reparto per realizzare iniziative culturali e
artistiche. Io avrei soltanto scelto di utilizzare quell’area per
alcune attività e non per altre, sulla base della sua storia. Avrei
promosso un utilizzo sociale, solidale, inclusivo, avrei privilegiato
progetti e iniziative che avessero a che fare con i temi delle
diversità, per attuare il passaggio da “Imola città dei matti”,
Imola centro di relazione problematica con la diversità, a luogo di
elaborazione, progettazione, realizzazione di attività e progetti
continuativi sui temi dell’esclusione, dell’emarginazione, della
fragilità individuale e collettiva. Credo fermamente, tra l’altro,
che percorrendo questa strada, avremmo caratterizzato il nostro
territorio e avremmo potuto creare “sbocchi occupazionali”, come
si dice: non più in campo sanitario, ma in campo socio-culturale e
in ambito educativo e artistico. Sono convinta che avremmo potuto
“convogliare risorse”, e molte, seguendo questa direzione. Quello
che io avrei fatto l’ho comunicato in numerosi progetti consegnati
per oltre trent’anni ai decisori delle Istituzioni e dei Servizi
locali, comunque non sto mica sostenendo che vorrei che si facesse
quel che farei io. Tra l’altro so benissimo che negli
anni sono nati vari comitati, accomunati dalla preoccupazione che
un’area così bella e così vicina al centro e così piena di
risorse, in termini di contenitori e di parco, non fosse privatizzata
ma rimanesse di pubblica utilità, sede di attività culturali,
educative, formative, o di eccellenze artistiche, ecc.. Ma non ho
molte notizie di prese di posizione che, come questa mia vorrebbe
fare, partisse dalla considerazione che l’Osservanza, così come
anche il Lolli, non è un luogo “qualsiasi”. Non è un parco
qualsiasi, non è “semplicemente” un’area bella da occupare, ma
è un luogo di potente memoria storica e socio-culturale, che non va
ignorata e/o rimossa.
Non è “semplicemente” un’area recuperata al passeggio dei cittadini: chiunque lo attraversi magari non ha idea di cosa quel luogo fosse, specie se è giovane (ahinoi), ma percepisce come ancora i reparti “parlino” potentemente. E di cosa parlano? Quali altri luoghi di potente e triste memoria ci ricordano? Lo sappiamo tutti e non è un caso.
Infatti il complesso dell’Osservanza, costruito seguendo un sistema ideato dall'Accademia delle Scienze di Parigi che risale al 1788, ma ritenuto ancora all'inizio del Novecento il più completo e perfetto, è una struttura razionale, con padiglioni e schemi che ricordano quelli che in seguito furono ripresi dai lager nazisti. Dicevo che il tema della memoria del luogo è stato presente in alcune iniziative di carattere artistico, ma non è emerso nelle molte iniziative di tutela dell’area e come indicatore e discriminante di operatività per le nuove destinazioni d’uso dei reparti dismessi, inoltre i sempre più frequenti utilizzi indicano che si tende ad occupare quegli spazi, al chiuso e all’aperto, come se ne occuperebbero altri, all’interno di altre aree urbane, valutandone pragmaticamente e le dimensioni, la capienza, i costi. Sorvolo sulla parentesi Gae Aulenti, in questa sede. Dicevo che io invece penso che la memoria del luogo avrebbe dovuto contare, e almeno essere presa in considerazione per una sorta di “passaggio di consegna”. Penso che una sorta di presidio culturale, in forma da stabilire, avrebbe dovuto esserci e dovrebbe permanere. Mi sarei accontentata anche di piccole idee. Mi sarebbe bastato che dopo “Osservanti osservati” si fosse deciso di finanziare un’opera da collocare stabilmente, sempre dedicata alla memoria del luogo, e mi sarebbe bastato perfino che si fosse realizzata una anche piccola esposizione permanente, ispirata alla memoria del luogo. Mi sarebbe piaciuto che una volta almeno si fosse indetto un concorso nelle scuole, per raccogliere e magari premiare un’idea di omaggio alla memoria da realizzare… Un sacco di cose, anche piccole, avrebbero potuto placare questa mia tristezza che a tratti diventa perfino rabbia, lo ammetto, di assistere a questo passare sopra a tutte quelle storie senza volerci fare caso, senza nemmeno una piccola lapide a ricordo, come si farebbe, con la minore delle fantasie ma magari con sincero rammarico, per un solo tremendo fatto di cronaca.
Lì dentro e in questa città di tremendi fatti che non hanno avuto risonanza alcuna, che non ce l’hanno fatta nemmeno a uscire dalle quattro mura strette e luride di una stanza, ne sono accaduti tanti, per anni, per decenni, per un secolo. E non sono mai diventati cronaca perché accadevano nell’omertà, perché riguardavano gente sparita al mondo e di nessun conto.
Fermiamoci un attimo, siamo già in
ritardo. Pensiamoci un po’ e occupiamoci di attuare un passaggio.
Dobbiamo sapere, continuare a sapere, dobbiamo ricordare e,
soprattutto, far valere quella memoria nel presente, per questo
presente così cupo che ancora (o sarebbe meglio dire di nuovo?)
stenta a riconoscere le diversità come preziose occasioni e che
distorce con ironia e disprezzo i nomi delle cose belle come quando
fa diventare “buonismo” la solidarietà, la cura e l’attenzione
per i propri simili, la rinuncia all’indifferenza.Non è “semplicemente” un’area recuperata al passeggio dei cittadini: chiunque lo attraversi magari non ha idea di cosa quel luogo fosse, specie se è giovane (ahinoi), ma percepisce come ancora i reparti “parlino” potentemente. E di cosa parlano? Quali altri luoghi di potente e triste memoria ci ricordano? Lo sappiamo tutti e non è un caso.
Infatti il complesso dell’Osservanza, costruito seguendo un sistema ideato dall'Accademia delle Scienze di Parigi che risale al 1788, ma ritenuto ancora all'inizio del Novecento il più completo e perfetto, è una struttura razionale, con padiglioni e schemi che ricordano quelli che in seguito furono ripresi dai lager nazisti. Dicevo che il tema della memoria del luogo è stato presente in alcune iniziative di carattere artistico, ma non è emerso nelle molte iniziative di tutela dell’area e come indicatore e discriminante di operatività per le nuove destinazioni d’uso dei reparti dismessi, inoltre i sempre più frequenti utilizzi indicano che si tende ad occupare quegli spazi, al chiuso e all’aperto, come se ne occuperebbero altri, all’interno di altre aree urbane, valutandone pragmaticamente e le dimensioni, la capienza, i costi. Sorvolo sulla parentesi Gae Aulenti, in questa sede. Dicevo che io invece penso che la memoria del luogo avrebbe dovuto contare, e almeno essere presa in considerazione per una sorta di “passaggio di consegna”. Penso che una sorta di presidio culturale, in forma da stabilire, avrebbe dovuto esserci e dovrebbe permanere. Mi sarei accontentata anche di piccole idee. Mi sarebbe bastato che dopo “Osservanti osservati” si fosse deciso di finanziare un’opera da collocare stabilmente, sempre dedicata alla memoria del luogo, e mi sarebbe bastato perfino che si fosse realizzata una anche piccola esposizione permanente, ispirata alla memoria del luogo. Mi sarebbe piaciuto che una volta almeno si fosse indetto un concorso nelle scuole, per raccogliere e magari premiare un’idea di omaggio alla memoria da realizzare… Un sacco di cose, anche piccole, avrebbero potuto placare questa mia tristezza che a tratti diventa perfino rabbia, lo ammetto, di assistere a questo passare sopra a tutte quelle storie senza volerci fare caso, senza nemmeno una piccola lapide a ricordo, come si farebbe, con la minore delle fantasie ma magari con sincero rammarico, per un solo tremendo fatto di cronaca.
Lì dentro e in questa città di tremendi fatti che non hanno avuto risonanza alcuna, che non ce l’hanno fatta nemmeno a uscire dalle quattro mura strette e luride di una stanza, ne sono accaduti tanti, per anni, per decenni, per un secolo. E non sono mai diventati cronaca perché accadevano nell’omertà, perché riguardavano gente sparita al mondo e di nessun conto.
(Imola, maggio 2019, Marina Mazzolani)
Angelo Gentilini