30 maggio 2019

Lettera aperta sull' Osservanza di Marina Mazzolani.

Se durante la seconda guerra mondiale avessimo avuto sul territorio un campo di concentramento, credo che a qualche forestiero parrebbe strano se gli si dicesse: «Sai, dopo che hanno finito di utilizzarlo come campo di concentramento, è stato prima tenuto chiuso per vent’anni e poi lo hanno aperto da ogni lato risanando i percorsi interni e il parco, sigillando per benino i locali ormai inagibili, per farci sagre e iniziative di qualsiasi genere, dal calcetto saponato alle feste di partito. La più recente iniziativa ammicca nel titolo alla destinazione d’uso originale e si chiama “Concentramenti-con”».
Qualcuno farebbe qualche domanda, io credo, a cominciare dal perché fosse stato chiuso per vent’anni senza occuparsi di trasmetterne la memoria storica, e infine, in merito all’utilizzo indiscriminato promosso recentemente, sono sicura che qualcuno farebbe notare: «Ma come, senza nemmeno occuparsi che quello fosse un campo di concentramento? Passando sopra alla storia così, trattando quel luogo come qualsiasi altro?» «Sì», dovremmo rispondere, «così: dal campo di concentramento allo street food senza fare una piega». Trent’anni prima i matti venivano ancora trattati con gettate d’acqua fredda e la scena era sotto gli occhi dei passanti oltre le recinzioni, trent’anni dopo facciamo “Manicomi-con” e feste varie, senza fare una piega. Senza fare una piega, in questo caso, significa incuranti del luogo e della sua memoria. «Però», direbbe magari qualcuno, «il paragone tra un campo di concentramento e un manicomio mi pare azzardato». Certo, qualcuno lo direbbe, e questo dimostra appunto che non vogliamo fare i conti con la storia. Questo dimostrerebbe quant’acqua sia passata sotto i ponti dalla rivoluzione culturale che portò all’approvazione della Legge Basaglia, che i luoghi come l’Osservanza li volle chiudere proprio perché ritenuti lesivi della dignità umana, oppressivi, degradanti, spesso sedi di torture. Tra l’altro sappiamo che l’Osservanza, al contrario del Lolli, non chiuse per nulla nel ‘78 o giù di lì: continuò a funzionare per centinaia di internati, ancora per tredici, quattordici anni, e solo nei reparti gestiti dal Dott. Antonucci la conduzione prettamente manicomiale era disattesa, anzi, quotidianamente contrastata. Per oltre un secolo all’Osservanza e al Lolli hanno trascorso mesi, anni, vite intere, decine di migliaia di persone: donne, uomini, bambine e bambini. Vite rubate, oltraggiate, offese. I manicomi erano luoghi di concentramento di umanità varia ma tutta, per diverse ragioni, impossibilitata o incapace di attenersi alla norma, alla morale corrente, o ai comportamenti ritenuti idonei, ai pensieri e alle filosofie accettati come corretti, alle prestazioni lavorative, domestiche, familiari dipendenti da rigidi ruoli sociali, di genere, ecc.. Luoghi di concentramento, di reclusione, dove questa incapacità o impossibilità di attenersi alla norma, questa difficoltà di normalizzazione, questa diversità spesso irriducibile e comunque scomoda, veniva ritenuta in diverse direzioni pericolosa, e come tale trattata, alimentando il pregiudizio verso qualcuno, ritenuto “sbagliato” e promuovendo l’idea di una comunità altrimenti sana, equilibrata, giusta, che non doveva essere perturbata, corrotta da comportamenti inadeguati o disturbata da difficoltà eccessive, di ordine fisico o mentale. Chiunque abbia frequentato da vicino un manicomio sa che c’è poco da ricordare con leggerezza. E forse è per questo che stiamo procedendo con un colpo di spugna sul nostro passato di dipendenti dalle istituzioni manicomiali imolesi, da quella che è stata per Imola quello che fu la FIAT per Torino, come giustamente ha scritto qualcuno nell’introduzione ad uno degli ultimi libri che ha raccolto le testimonianze di infermieri e medici ancora in vita. 
Ma cosa voglio dire, in fondo? Che dovremmo conservare quell’area bloccata nella sua storia? Trasformarla in un grande museo-testimonianza? Certo che no. Fosse stato per me, fossi stata io la Proprietà, non avrei per niente rotto trent’anni fa i sifoni dei lavandini, spaccato tubature, divelto porte, insomma fatto in modo da impedire l’utilizzo dei reparti, anche quelli che ai tempi erano stati appena ristrutturati, a gruppi di cittadini, associazioni, artisti, a chiunque intendesse fare attività in quel luogo. Io non avrei mai tenuto chiuso per vent’anni quei contenitori, così preziosi e così appetibili, oltre che per i costruttori locali, soprattutto per chi avesse idee di laboratori, di incontri, di iniziative. Certo non avrei mandato sotto processo, come invece è accaduto, dei giovani colpevoli di aver occupato un ex reparto per realizzare iniziative culturali e artistiche. Io avrei soltanto scelto di utilizzare quell’area per alcune attività e non per altre, sulla base della sua storia. Avrei promosso un utilizzo sociale, solidale, inclusivo, avrei privilegiato progetti e iniziative che avessero a che fare con i temi delle diversità, per attuare il passaggio da “Imola città dei matti”, Imola centro di relazione problematica con la diversità, a luogo di elaborazione, progettazione, realizzazione di attività e progetti continuativi sui temi dell’esclusione, dell’emarginazione, della fragilità individuale e collettiva. Credo fermamente, tra l’altro, che percorrendo questa strada, avremmo caratterizzato il nostro territorio e avremmo potuto creare “sbocchi occupazionali”, come si dice: non più in campo sanitario, ma in campo socio-culturale e in ambito educativo e artistico. Sono convinta che avremmo potuto “convogliare risorse”, e molte, seguendo questa direzione. Quello che io avrei fatto l’ho comunicato in numerosi progetti consegnati per oltre trent’anni ai decisori delle Istituzioni e dei Servizi locali, comunque non sto mica sostenendo che vorrei che si facesse quel che farei io. Tra l’altro so benissimo che negli anni sono nati vari comitati, accomunati dalla preoccupazione che un’area così bella e così vicina al centro e così piena di risorse, in termini di contenitori e di parco, non fosse privatizzata ma rimanesse di pubblica utilità, sede di attività culturali, educative, formative, o di eccellenze artistiche, ecc.. Ma non ho molte notizie di prese di posizione che, come questa mia vorrebbe fare, partisse dalla considerazione che l’Osservanza, così come anche il Lolli, non è un luogo “qualsiasi”. Non è un parco qualsiasi, non è “semplicemente” un’area bella da occupare, ma è un luogo di potente memoria storica e socio-culturale, che non va ignorata e/o rimossa.
Non è “semplicemente” un’area recuperata al passeggio dei cittadini: chiunque lo attraversi magari non ha idea di cosa quel luogo fosse, specie se è giovane (ahinoi), ma percepisce come ancora i reparti “parlino” potentemente. E di cosa parlano? Quali altri luoghi di potente e triste memoria ci ricordano? Lo sappiamo tutti e non è un caso.
Infatti il complesso dell’Osservanza, costruito seguendo un sistema ideato dall'Accademia delle Scienze di Parigi che risale al 1788, ma ritenuto ancora all'inizio del Novecento il più completo e perfetto, è una struttura razionale, con padiglioni e schemi che ricordano quelli che in seguito furono ripresi dai lager nazisti. Dicevo che il tema della memoria del luogo è stato presente in alcune iniziative di carattere artistico, ma non è emerso nelle molte iniziative di tutela dell’area e come indicatore e discriminante di operatività per le nuove destinazioni d’uso dei reparti dismessi, inoltre i sempre più frequenti utilizzi indicano che si tende ad occupare quegli spazi, al chiuso e all’aperto, come se ne occuperebbero altri, all’interno di altre aree urbane, valutandone pragmaticamente e le dimensioni, la capienza, i costi. Sorvolo sulla parentesi Gae Aulenti, in questa sede. Dicevo che io invece penso che la memoria del luogo avrebbe dovuto contare, e almeno essere presa in considerazione per una sorta di “passaggio di consegna”. Penso che una sorta di presidio culturale, in forma da stabilire, avrebbe dovuto esserci e dovrebbe permanere. Mi sarei accontentata anche di piccole idee. Mi sarebbe bastato che dopo “Osservanti osservati” si fosse deciso di finanziare un’opera da collocare stabilmente, sempre dedicata alla memoria del luogo, e mi sarebbe bastato perfino che si fosse realizzata una anche piccola esposizione permanente, ispirata alla memoria del luogo. Mi sarebbe piaciuto che una volta almeno si fosse indetto un concorso nelle scuole, per raccogliere e magari premiare un’idea di omaggio alla memoria da realizzare… Un sacco di cose, anche piccole, avrebbero potuto placare questa mia tristezza che a tratti diventa perfino rabbia, lo ammetto, di assistere a questo passare sopra a tutte quelle storie senza volerci fare caso, senza nemmeno una piccola lapide a ricordo, come si farebbe, con la minore delle fantasie ma magari con sincero rammarico, per un solo tremendo fatto di cronaca.
Lì dentro e in questa città di tremendi fatti che non hanno avuto risonanza alcuna, che non ce l’hanno fatta nemmeno a uscire dalle quattro mura strette e luride di una stanza, ne sono accaduti tanti, per anni, per decenni, per un secolo. E non sono mai diventati cronaca perché accadevano nell’omertà, perché riguardavano gente sparita al mondo e di nessun conto.
Fermiamoci un attimo, siamo già in ritardo. Pensiamoci un po’ e occupiamoci di attuare un passaggio. Dobbiamo sapere, continuare a sapere, dobbiamo ricordare e, soprattutto, far valere quella memoria nel presente, per questo presente così cupo che ancora (o sarebbe meglio dire di nuovo?) stenta a riconoscere le diversità come preziose occasioni e che distorce con ironia e disprezzo i nomi delle cose belle come quando fa diventare “buonismo” la solidarietà, la cura e l’attenzione per i propri simili, la rinuncia all’indifferenza.
(Imola, maggio 2019, Marina Mazzolani)
Angelo Gentilini